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Al di là del prussianesimo di cui è imbevuto, c'è nel suo teatro qualcosa che parla con urgenza allo spettatore d'oggi? E se c'è, in che cosa consiste, e come si articola?
La nuova messinscena di Cesare Lievi vuole rispondere a queste domande e per farlo si concentra non tanto sul dramma di chi si trova dilaniato tra sentimento e legge, libertà e obbedienza, inconscio e norma, ma sulla proposta kleistiana (tutta moderna) di una possibile soluzione: da ogni conflitto si esce grazie a un sogno. Non importa se è destinato a cedere e crollare sotto il principio di realtà, anzi.
In uno spazio neoclassico, sospeso e irreale, dieci attori sempre in scena daranno vita, con la fluidità, la precisione e la vaghezza tipica dei sogni, a una vicenda fortemente drammatica e incalzante, in cui l'immaginazione (e l'inconscio che la determina) si confronta continuamente con la legge e l'ordine, rivelandosi forza fondamentale per decidere la vita, il suo senso e il suo destino.
Lasciò l'esercito per gli studi, la scienza per la poesia, l'amministrazione prussiana per la libertà, la famiglia per il mondo e infine il mondo per la morte. Amava se stesso con acredine, ambiva disperatamente alla gloria, credeva nella vana illusione dell'arte ed era affascinato dall'insensatezza della vita.
Come pochi altri scrittori della letteratura europea, Kleist ha intuito e rappresentato le lacerazioni e i conflitti della modernità, creando figure immortali che raccontano ancor oggi il nostro destino. Ne sono una prova le continue trasposizioni della sua opera nel cinema, le traduzioni d'autore, le messinscene teatrali. La sua poesia, al contempo lucida e sognatrice, aiuta a interpretare il nostro mondo, o forse soltanto a renderlo più sopportabile.
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